Bruna Bertolo

Biografia di Enzo Sciavolino

BrunaBertoloSeguire i momenti essenziali della vita di Sciavolino significa capire ciò che sta alla base della sua arte e delle sue scelte. Enzo Sciavolino nasce nel 1937 a Valledolmo, piccolo paese in provincia di Palermo: la sua è una famiglia numerosa, in cui la grande apertura mentale e culturale del padre stride fortemente con le disagiate condizioni economiche. Del resto, Valledolmo è come la maggior parte dei paesi siciliani, dominato dal latifondo: poveri contadini al limite della sussistenza, un disagio sociale più che marcato, un’arroganza padronale mortificante ed oppressiva. Ed è proprio qui che si collocano 1e vere radici dell’arte e delle scelte politiche ed ideologiche di Enzo Sciavolino.

«Ci fu un episodio che non ho mai potuto dimenticare, all’epoca della scuola elementare: ricordo un corteo pacifico di braccianti che in occasione di una festa avevano simbolicamente occupato alcune terre lasciate incolte. Mi ricordo soprattutto l’intervento violento della polizia, i colpi ricevuti da questa povera gente, un momento di festa trasformato improvvisamente in un momento di dolore e di repressione. Fu lì che si decise... quel che sarei stato per sempre».

Gli anni siciliani di Sciavolino sono caratterizzati dalla frequenza scolastica: una scuola che opprimeva e annoiava, ma che, nonostante tutto, non riusciva a frenare l’onda prepotente della sua creatività. Eccolo infatti frequentare, negli assolati pomeriggi, la bottega di un falegname: qui Enzo si diverte a costruire ed inventare oggetti e giocattoli in miniatura, vera e propria manipolazione dei materiali in chiave volumetrica e plastica. La frequenza della scuola media e del ginnasio a Cefalù è per Sciavolino la scoperta della necessità di uscire da un ambiente che opprime, che limita, un ambiente che impone certezze anche religiose ed ideologiche: quelle certezze che Sciavolino, per tutta la vita, ripudierà. Nel ’53 la grande svolta: la decisione di venire al Nord, a Torino, città che per la famiglia Sciavolino rappresentava “un mito”: il mito del lavoro, della sicurezza economica, del riscatto sociale.

«Fui accettato al Liceo Artistico dopo aver superato un esame di ammissione molto selettivo ed ebbi... un colpo di fortuna, quello che mi permise di vivere e pagare gli studi senza difficoltà: fui assunto al cinema Corso ed Ambrosio come... venditore di gelati! Un lavoro ben pagato che mi diede la tranquillità economica necessaria: negli ultimi anni di liceo riuscii pure ad avere il mio primo studio e creare le prime opere».

E infatti nel ’59 Sciavolino organizza a Torino la sua prima personale: fu un grosso successo di pubblico e di critica.

«Gli artisti di Torino, quelli che all’epoca contavano e che influenzavano il mercato, si “interessarono” a me. Sulla “Gazzetta del Popolo”, il famoso critico Luigi Carluccio pubblicò un articolo molto lusinghiero sulle mie opere e mi fu proposto un contratto con una celebre galleria torinese. Un colpo di fortuna, mi dissero, ma io risposi di no: non volevo vincolare la mia espressività al cosiddetto stilema per esigenze di mercato».

Un “no” costato caro, un no che ha forse condizionato il rapporto di Sciavolino con il mercato, creandogli la fama di “artista sovversivo e rompicoglioni”, di personaggio scomodo e fuori dalle righe, una fama che l’ha seguito fin qui. Dopo la personale del ’59, ecco la decisione di andarsene e ricominciare da capo: Parigi, un nuovo ambiente, incontri che arricchiscono il suo spirito, la frequentazione di artisti, esperienze diverse che servono a fornirgli i mezzi per permettergli di realizzare ciò che veramente gli sta a cuore.

Poi, il ritorno a Torino, 1’incontro nel ’61 con Elsa Mezzano, la grande compagna della sua vita, oggi affermata professionista nel campo della fotografia.

Gli anni Sessanta sono anni di grande fervore per la sua ricerca artistica, ma anche di passione per tutto ciò che lo circonda. Partecipa attivamente alla vita culturale e al dibattito politico. Ama il teatro, il cinema, la musica e il jazz è la sua grande passione (indimenticabile fu per lui John Coltrane nell’inverno del ’60 a Parigi).

Stringe amicizia con le voci più illustri della grande anima popolare siciliana, Rosa Balistreri, Cicciu Busacca e Ignazio Buttitta, la cui creatività lo affascina e lo commuove. Nel ’66 la nascita di Igor, 1’unico figlio, ora musicista affermato. Una maggior sicurezza economica (come insegnante al Liceo Artistico dal ’68) che gli permette di dedicarsi anima e corpo alla sua arte: creazioni con materiali diversi, il legno, il marmo, il bronzo, la terracotta, il plexiglass, 1’oro, 1’argento, creazioni legate da un unico filo conduttore: 1’interesse per 1’uomo, per i suoi problemi.

La sua è una ricostruzione della storia, dei suoi grandi momenti, dei suoi grandi conflitti: conflitti sociali e tensioni di classe; conflitti esistenziali ed il perdersi del1’uomo nello spazio urbano in quella grande “gabbia” che 1’uomo stesso crea attorno a sé. Intanto, nel ’74, Sciavolino si stabilisce a Rivoli: una casa amata fin dal primo incontro.

Gli anni Settanta e Ottanta coincidono con la creazione di una serie di sculture di grandi dimensioni e di grande impegno civile: La Questione e il ciclo Discorso sui materiali del far scultura per interposto Marat pongono «una seria ipoteca sul primato della scultura di storia e di impegno civile in Italia» (Micieli). La Questione è un’opera in bronzo imponente ed affascinante: intellettuali, uomini di potere, ideologi ed artisti (da Marx a Pasolini, da Agnelli a Mao, da Gramsci a Guttuso) sono “collocati” attorno ad un tavolo: la grande questione è quella di sempre, mai risolta, la questione meridionale, un processo aperto tra la tensione spirituale e la necessità materiale. In questi anni conosce ed incontra più volte il filosofo Louis Althusser che suggella la sua ammirazione per La Questione con questo suo suggestivo pensiero: «Pour provoquer 1’immobile à sa vérité: le mouvement qui change tout». Anche oggi, la “questione meridionale” è ben lungi dall’essere risolta. Forse, fino a qualche anno fa, era soprattutto concentrata nella dimensione nord e sud dell’Italia. Oggi, la “questione meridionale” diventa la stessa problematica che identifica la disuguaglianza irrisolta della metà povera della società, nel mondo intero. E che porta alla ribalta episodi più o meno marcati di violenza, di razzismo, di intolleranza, ma soprattutto di miseria e di sofferenza. E, allora, la grande scultura che Sciavolino realizzò intorno alla metà degli anni 70 appare in tutta la sua contemporaneità. Valida e stimolante nel corso del 900.

ConsoloYounEnzoNeroMa valida, e altrettanto inquietante, anche negli anni 2000 che stiamo vivendo.

«La questione meridionale - racconta lo scultore - è, anche come tipologia, un monumento, ma il termine va inteso in senso molto diverso rispetto al significato ottocentesco o novecentesco. Allora il monumento era soprattutto l’esaltazione di un fatto, di un’idea, serviva come “retorica contemplativa” e cercava di catturare il consenso. In opposizione a questo concetto di monumento, nasce invece la possibilità che un’opera riesca ad implicare non una semplice contemplazione ma un’apertura, un dialogo, una discussione. La mia “questione meridionale”, con i suoi personaggi, è un invito ad aggirarsi attorno al tavolo, a sedersi su quella sedia vuota che aspetta, chissà, qualcuno che non è ancora arrivato ma che potrebbe anche inserirsi in questa discussione ideale che i personaggi rappresentati suggeriscono. Un discorso che rimane sempre aperto».

È dialogando con Althusser sull’utopia rivoluzionaria e ancor più con Pierre Klossowski, affascinante e suggestiva figura di scrittore e pittore, che nasce in Sciavolino 1’idea di un viaggio attraverso 1’acqua, il sangue, il legno, il metallo, il corpo, la cenere dell’illusione degli anni Settanta tra Che Guevara e Pasolini in fiore. Prende corpo e, come in un diario, si sustanzia in opere il ciclo del Discorso sui materiali del far scultura per interposto Marat.

Si può veramente dire che la produzione di Sciavolino ha accompagnato idealmente questi ultimi 50 anni della nostra storia: la questione sociale, ma anche i terribili anni di piombo, quegli anni 70 che compaiono in molte delle sue sculture e che segnarono in modo indelebile una parte così importante della storia del 900. Anni crudeli, pieni di contraddizioni, denunciati nella loro violenza dalle opere dello scultore, simbolicamente racchiuse in un unico significativo insieme dal titolo But cruel are the times. Nelle opere di quegli anni l’ambiguità di un’altalena tragica; stupivano i suoi “teatrini” che denunciavano la violenza che stava per abbattersi all’interno del quotidiano della realtà italiana, con il terrorismo, le minacce delle Br, la “pistola” che compariva in molte sue opere, non più giocattolo ma strumento di morte. Una denuncia dei tempi.

Memoria storica e privata. Enzo si infervora quando ricorda le arrampicate con la sua utilitaria sopra Velate per incontrarsi con Renato Guttuso e il fascino che questi esercitava su lui. Si commuove quando rievoca la dolcezza di Carlo Levi e la simpatia che lo scrittore-pittore gli dimostrava fino a ritrarlo là, sotto gli ulivi, sopra Alassio. Si rattrista all’evocazione della morte atroce di Pasolini avvenuta proprio nei giorni in cui portava a conclusione la modellazione della figura posta come asse centrale de La Questione, e si rammarica di non aver potuto mettere in atto dei progetti comuni.

Memoria storica e privata: due momenti della vita e della scultura di Sciavolino che nel ciclo Il tempo e la memoria o della perdita dell’infanzia sembrano sottolineare il disincanto dell’età adulta, quando il momento delle favole lascia il posto alla disillusione della realtà. Ma, in questo disincanto e totale realismo, 1’artista coltiva un sogno: quello di rappresentare in forme plastiche ciò che plastico non è: 1’aria, la luce, 1’acqua... insomma 1’incontenibile leggerezza dell’essere.

Nel 1997 suscita grande interesse l’antologica, curata da Mario Serenellini, Corpi aperti-Scultura andata e ritorno, con 40 sculture e 40 fotografie di Elsa Mezzano, realizzata presso il Castello Malgrà a Rivarolo Canavese, Torino.

Nello stesso anno, esce la monografia Sciavolino scultore. Quarant’anni di lucida passione, curata da Nicola Micieli, con prefazione di Tahar Ben Jelloun, Bandecchi & Vivaldi Editore, Pontedera. Nel testo introduttivo lo scrittore Tahar Ben Jelloun rileva l’affinità poetica che lo avvicina all’artista, l’identità di vedute nei riguardi dell’arte scultorea e il grande apprezzamento nei confronti della sua «scommessa di una scultura di ricerca vulcanica», che in questi ultimi anni ha raggiunto una totale leggerezza, frutto di una sempre maggiore padronanza dei propri mezzi espressivi.

Nel 1998-99 realizza due sculture di grandi dimensioni: Marea, in marmo e bronzo, destinato al Parco di Scultura Contemporanea di Ostellato, presso Ferrara, e il Canneto. Monumento al Territorio, in bronzo, per l’area industriale Sipro in San Giovanni di Ostellato.

Nel 1999 la città di Rivoli gli dedica l’antologica, a cura di Alfonso Panzetta, Enzo Sciavolino. Dall’impegno alla poesia con assoluta coerenza, con 50 opere realizzate dal 1960 al 1998: i visitatori, numerosissimi, restano affascinati dalle forme magiche e inquietanti che rivelano sogni e incanti, speranze e disillusioni, viaggi della mente e del cuore di un artista che sa stupire, incuriosire, dialogare. E offrire porzioni di reale e di fantastico attraverso materiali diversi, illuminati da una creatività a 360°. Rivoli, una città che ama molto Enzo Sciavolino: non è un caso che proprio le sue sculture abbiano inaugurato, accanto ai “cieli” di Antonio Carena, la prestigiosa nuova sede espositiva della Casa del Conte Verde, medievale testimonianza del cuore storico della città.

Dal 1998 al 2000 realizza Nel cerchio della mia vita, opera di sei metri per quattro in marmo Bianco e Bardiglio Nuvolato delle Cave Michelangelo di Carrara, per la Città di Collegno che la colloca nel Parco della Memoria.

Nel 2002-2004 lavora alla realizzazione della fontana monumentale, alta sette metri in marmo e bronzo, L’Albero della Pace, posta nella Piazza Martiri della Libertà della Città di Rivoli. La fontana rappresenta il sorgere della vita dalle acque. A colpire la fantasia e l’immaginazione è soprattutto il grande e frondoso albero in bronzo che lascia appoggiare sui suoi rami alcuni colombi, mentre alla sua base quattro bambini si danno la mano, in un simbolico girotondo della pace. Un messaggio di speranza, dunque, in quella fontana che è già diventata parte integrante della città.

Nel 2008 la Regione Piemonte gli dedica nella sede della Cavallerizza Reale a Torino l’antologica Enzo Sciavolino. Cinquant’anni di scultura. Opere 1957-2007, a cura di Nicola Micieli.

Negli ultimi anni, dunque, 1’interesse di Sciavolino ha preso direzioni diverse: alla ricerca della memoria, dei propri sogni, non in senso nostalgico, ma in senso proustiano, nel bisogno incontenibile di cogliere la “leggerezza dell’essere”. Sarà che forse le ribellioni di un tempo si sono placate, sarà che forse la nascita delle nipotine ha dato un senso di continuità al suo essere, sarà che il ritorno in Sicilia, nel suo paesino natale di Valledolmo, prima tanto temuto e poi desiderato con infinita tenacia, ha sopito antichi rancori. Ma 1’opera dello Sciavolino di oggi ha acquistato una nuova struggente poesia che si riflette in quelle sculture che rappresentano 1’innocenza del gioco infantile, il dolce dondolio del bambino che va sul1’altalena. O l’isola incantata che sembra affiorare in un mare sonoro, in cui le onde, nel loro susseguirsi calmo e sereno, suggeriscono percorsi musicali, leggeri leggeri.

 


 

Nicola Micieli

Enzo Sciavolino scultore

Del lungo percorso artistico di Enzo Sciavolino ha reso conto nel 2008 la mostra di ampio periplo promossa dalla Regione Piemonte a Torino, quasi a suggello del suo intimo rapporto con la città del lavoro e della cultura.
A Torino Sciavolino approdò giovanissimo, nel 1953, vi si formò e si scoprì uomo e artista metropolitano, avendo della sua terra conservato l’impronta mediterranea, e un senso di umanità ancora informato all’etica del rispetto della persona nel circolo comunitario.
Per questo egli si è dimostrato fortemente sensibile alle contraddizioni della modernità e disposto a farne una critica, rappresentando per circa un trentennio le incrinature strutturali, i segnali di crisi culturale e sociale del suo tempo.
ConMicieliColorHa anzi usato il tono perentorio e la tagliente sintesi formale della denuncia, consegnata a marchingegni claustrofobici e inquisitori, di fatto assimilando la scultura a un vero e proprio “teatro della crudeltà” che copre, in pratica, gli interi anni Settanta e sfocia nei due grandi momenti scultorei La Questione e Discorso sui materiali del far scultura per interposto Marat.
Queste opere che riassumono in modo emblematico la crisi di identità e di funzione della sinistra italiana al guado dei plumbei anni Settanta, sono per Sciavolino le pagine di una autobiografia inquieta nella quale si riconosce il clima di un’epoca e il profilo parabolico, tra illusione e disincanto, di un’intera generazione.
Per Enzo Sciavolino la scultura è stata sempre luogo concreto della parola, della presenza, del coinvolgimento: un visibile parlare, una provocatoria animazione contigua all’azione drammatica. Un parlamento in forma di teatro plastico.
Nella vocazione a una scultura in cui convergono l’immagine e la parola, nella quale la presenza e anche l’urgenza della storia sovente assumono l’intonazione popolare e simbolica del mito, si manifesta la sicilianità di Enzo Sciavolino.
È l’onda lunga di una tradizione che va dai classici a Pirandello a Sciascia a Consolo, e che come scultura, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, Sciavolino ha interpretato con forme linguistiche assai vicine al teatro della crudeltà di Arthaud e una logica performativa da Living Theatre.
Con gli anni Ottanta matura una più intensa concentrazione lirica, sino all’evocazione dell’innocenza come Utopia consegnata al sogno e alla leggerezza dell’immaginario.
Anche nel senso della dimensione mitica, rilevata e argomentata da due scrittori di ampio respiro mediterraneo, quali Tahar Ben Jelloun e Vincenzo Consolo.
Dai quali si evince come Sciavolino abbia inteso il mito quale recupero del senso profondo delle cose in un tempo sempre più disancorato dai radicali antropologici della cultura.
A questa esigenza primaria rimandano i grandi legni, i marmi e i bronzi dei cicli Il tempo e la memoria o della perdita dell’infanzia (1981-1990), Frammenti.
Incontenibile leggerezza
(1990-1996) e Il circo degli angeli (1997-2007), opere di diverso registro espressivo rispetto ai precedenti cicli caratterizzati da un acuto sentimento anche politico del tempo, ma che di quelli raccolgono e sviluppano poeticamente i temi di fondo confermando la concezione “teatrale” dello spazio, inteso quale luogo d’azione.
Il tempo e la memoria è un modo di fare storia affidandosi non più a referenti documentari, ma alla drammaticità e ambiguità evocativa ed espressiva di oggetti, forme, figure ormai assimilati alla funzione magica ed evocativa delle reliquie e dei simulacri metaforici.
Basti l’esempio del Gramsci (1987), un’opera di spiritualizzata intensità, dalla materia prosciugata, resa pura essenza e fervore interiore; o dell’Angelus Novus, creatura alata portatrice di una bellezza estraniante, pervasa del fascino sottile del tempo che consuma l’essere nel suo fluire.
I Frammenti in marmo candido, talora parzialmente dipinto, sono momenti della quotidianità esemplati sui frammenti di scavo del mondo classico.
Dai frammenti scaturisce il ciclo Incontenibile leggerezza (1991-1992), una poetica scalata della tenerezza e della grazia a un cielo ancora possibile, da assegnare ai fanciulli e ai poeti, che ne riconoscono la voce nel proprio cuore.
Dichiarava Sciavolino nel 1993: «Propongo frammenti di storie, di natura, di realtà che sono porzioni di sogni, di memoria nella battaglia per la verità, che è poi la poesia».
Nelle opere sino al presente Sciavolino non ha mai cessato di tentare la via della favola e dell’apologo mediante immagini di incantata semplicità.
Nel trittico della “leggerezza” un putto alato scala una corda ancorata al cielo; un bimbo cavalca una scopa stregata; una bimba fa l’altalena, con sul capo un cielo di fronde gemmate.
Più oltre la scena si popola di altri putti, eroi in sedicesimo: qui un auriga classico guida un destriero a dondolo; là cavalca un ippogrifo con portamento regale o fa bilanciere su una corda tirata tra due aerei trampolini, sulla vertigine del vuoto.
Altrove si assiste ad altre acrobazie e sfilate e apparizioni e viaggi, nel circo della terra o sulle onde del mare, che Sciavolino ha raccolto in bacili di bronzo o sezionato nel marmo delle sue isole-stele, dove ognuno di noi vorrebbe approdare per nuovamente conoscersi e conoscere.
Credo non sia un caso che proprio in questa sua matura stagione, e con i protagonisti delle sue favole intorno agli idilli delle creature nel candore dell’Eden ritrovato della poesia, Sciavolino abbia creato alcune importanti opere collocate all’aperto e quali luoghi di sosta e di incontro della gente.
Da Reality, n. 49, Santa Croce sull’Arno, settembre 2008

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