Maurizio Pallante
Da Enzo Sciavolino, dopo trent’anni!

59 ConPallanteConteVerdeTrent’anni. Il tempo necessario a formare un adulto della specie umana nel quadrante di mondo e nell’arco di tempo in cui mi è capitato di vivere. Trent’anni in cui ho cambiato ctentato più strade, finché mi sono ritrovato a percorrerne una che mi è sembrato di riconoscere subito benché non ci fossi mai stato, lontana dalle periferie urbane dove ero vissuto dalla nascita, in un luogo dove il tempo era andato più lento, il buio era rimasto buio, il tempo della luce non era più lungo di quello del sole ed era sopravvissuto il silenzio.
Più di trent’anni sono passati dall’ultima volta che ero stato da Enzo Sciavolino, che in quel periodo di tempo non si è mai allontanato dalla sua chiocciola: un piccolo nucleo di piccole case appoggiate alle ultime balze della collina di Rivoli, racchiuse da un unico giro di mura attorno a un piccolo giardino e a un cortile sottostante. A poche centinaia di metri, ma a una distanza concettuale incolmabile dal Museo d’arte contemporanea, insediato alla fine del secolo scorso come un avamposto della modernità nel Castello che domina la cittadina dal pianoro più alto.
In quel piccolo nucleo di piccole case si è svolta la parte più lunga della ricerca artistica e culturale di Enzo Sciavolino. Le loro stanze sono i laboratori in cui ha disegnato i suoi schizzi; ha modellato la creta delle sculture che ha portato a fondere; ha tolto a colpi di scalpello l’in più di materia che imprigionava forme umane in tavole e tronchi di legno, le ha rifinite con una serie di sgorbie e le ha levigate; ha incerato lastre di zinco, le ha incise, le ha messe in morsura, le ha inchiostrate, pulite, appoggiate sul torchio a stella, ricoperte delicatamente con fogli di carta inumiditi e stampate con una pazienza e una precisione al limite della pignoleria.
Sono i laboratori dove Elsa ha sviluppato e stampato le sue foto, come propria attività artistica e come strumenti di supporto ai lavori di Enzo, sono le redazioni dove entrambi hanno impaginato libri d’arte e poesia, foto dopo foto, testo dopo testo, sono il salotto e la cucina dove hanno incontrato poeti, critici d’arte, scrittori, saggisti, sono i luoghi dove si è formato come musicista il loro figlio Igor.
Sono i magazzini dove Enzo ha raccolto alcune delle sculture che hanno scandito nel corso dei decenni la sua ricerca artistica, in una confusione che ti costringe a guardarle in modo non superficiale, a studiare i tragitti per avvicinarti a quelle che intravedi dietro le altre, a raggiungerle da punti di vista inusuali e a girare intorno a ognuna di esse.
Insomma il contrario di un’esposizione ordinata e illuminata correttamente, dove scivoli via con lo sguardo da un’opera all’altra senza soffermarti su nessuna.
Ho ripercorso quelle stanze, officine, laboratori, magazzini, redazioni, salotti, con la percezione di muovermi in un luogo ancestrale dove l’artigianato, il mestiere, il saper fare si liberano dalle loro funzioni utilitarie e diventano il fondamento della creatività artistica, dove è l’abilità tecnica che consente all’artista di portare fuori di sé e di dare una forma autonoma a ciò che intuisce dentro di sé. Niente di più diverso dal rifiuto sprezzante di ogni regola, dall’irrisione del saper fare, dalla ricerca cervellotica d’innovazioni fini a se stesse che caratterizza l’arte contemporanea.
Fu una mia raccolta di poesie, più di trent’anni fa, a farci incontrare: un tentativo modesto e incerto, commovente e buffo come il ghirigoro nell’aria di un uccellino che stia imparando a volare, di conferire un’aura epica alle vicende di una famiglia popolare dall’inizio ai primi anni Settanta del secolo scorso.
Enzo ne colse ciò che voleva essere senza compiutamente esserlo: una narrazione in cui molte famiglie avrebbero potuto riconoscere la propria storia, che, raccontata e reinterpretata con i suoi mezzi espressivi, avrebbe potuto contribuire a realizzare più pienamente la sua aspirazione di cogliere l’universale nel particolare.
I media su cui si sviluppò il dialogo tra le mie poesie e le sue incisioni furono l’inchiostro e la carta, le materie che consentono all’immaterialità della parola di superare i limiti dello spazio e del tempo in cui viene alla luce e crea un legame tra chi la pronuncia e chi l’ascolta.
La carta dell’acquaforte e l’inchiostro da incisione raccolto nei solchi di metallo che il rullo del torchio a stella, schiacciandola sotto di sé, le incorpora. I solchi di metallo in cui, con la complicità dell’acido, Enzo aveva tradotto nel suo linguaggio e con la sua sensibilità le impressioni che la lettura delle mie poesie gli avevano lasciato dentro.
E affinché il dialogo diventasse ciò che la sua etimologia indicava, un dià-logos capace di andare oltre il tempo e il luogo in cui stava avvenendo, mi chiese se volevo conoscere e contribuire ad applicare le tecniche con cui i simboli delle parole trasferiti sulla carta dall’inchiostro, diventavano immagini trasferite sullo stesso supporto dallo stesso mezzo. E furono pomeriggi e sere di lavoro paziente, di valutazioni comuni dei risultati, di fogli messi ad asciugare e archiviati, da cui uscivo con un sentore di trementina nel respiro che non si esauriva fino al giorno dopo.
Il dialogo con la poesia, con quel tipo particolare di poesia che si definisce civile, in cui i poeti non scrivono come individui, ma con la consapevolezza di esprimere attraverso ciò che sentono un sentire comune, un’aspirazione alla giustizia sociale, al riconoscimento dei diritti inviolabili delle persone, alla possibilità per tutti di far fruttare i propri talenti affinché la vita non si riduca a una semplice, spesso difficile e frustrante sopravvivenza, è una costante che caratterizza la ricerca artistica di Sciavolino. La storia è il contesto in cui si collocano le fasi della sua ricerca. È questo il terreno su cui ci siamo incontrati e che continuiamo a calpestare, da trent’anni non più negli stessi luoghi del mondo, ma con lo stesso spirito.
Passerano Marmorito, 29 gennaio 2015

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